Il giorno più lungo
La faccia nell’acqua fredda ti spiega con le cattive che la gara è cominciata. Veramente. Cala il silenzio nel tuo cervello, basta musica, basta chiacchere con i compagni, basta attesa che stava diventando una piacevole agonia. Ora sei rimasto solo dentro la muta, immerso in un mare non ancora azzurro perché il sole stavolta si sveglia dopo di te.
Cerco di controllare la foga, si sa all’inizio tutti sono presi dalla voglia di scattare. Ne lascio andare qualcuno, è giusto così perché ci sarà tempo per capire come vanno le cose.
Volutamente mi sono messo nel gruppo dei più scarsi, quelli oltre l’ora e tre quarti. E’ il tempo che prevedo di fare.
Cerco di mantenere un ritmo costante ma la prima boa è ancora tremendamente lontana, stento a vederla. Decido di fregarmene e comincio a stare nella scia di qualcuno che è avanti a me e farà il lavoro sporco di tenere la rotta. Stranamente non sento l’affanno e il rimuginare nella testa del “tieni il ritmo-tieni il ritmo” sta giovando al passo. La prima boa arriva infatti quasi di sorpresa, do un occhiata al Forerunner che mi conferma che il tempo è buono, anzi incredibilmente migliore di quanto facevo in allenamento.
Il mio orizzonte è ora la spiaggia di Nizza, ma oddio, da qui le palme della Promenade sono incredibilmente piccine, devo tornare là e poi rifarlo da capo ancora una volta. E’ una distanza enorme e la costa così lontana l’avevo vista solo dal traghetto. Arriva lo sconforto e pure un po’ di onda perché in mare aperto, il vento si è fatto un po’ più sostenuto, ma a quasi un chilometro da riva c’è solo un’opzione praticabile: nuotare ed anche non lentamente.
Si è formato un gruppetto, siamo quasi paralleli a distanza di pochi metri l’uno dall’altro, non ci diamo noia con le bracciate e l’acqua, straordinariamente limpida, mi consente di vedere chi sta accanto a me e di capire come sta nuotando. Mi sembra infatti di riconoscere nell’atleta accanto un movimento ora meno fluido, la fatica per qualcuno ora sta crescendo. Mi concentro sul movimento della bracciata, cerco di fare i compiti al meglio di come mi sono stati insegnati. Il gioco funziona, ne supero un paio e ne metto nel mirino un altro gruppetto. L’acqua pulita mi consente di individuare facilmente chi mi sta davanti, mi accorgo che se rimango concentrato sul movimento corretto riesco ad andare (relativamente) veloce. La strategia dello stare in scia, mettere la freccia e passare funziona, Sono gasato. Avrò mica imparato a nuotare ? Ormai sono rimaste solo alcune boe direzionali e le palme ora sono cresciute, sento nuovamente la musica ed il tifo che si agita per noi.
E’ fatta, tocco con il piede la moquette che gli organizzatori hanno steso fin sotto il pelo dell’acqua per aiutarci ad uscire. Non basta però, perché la mia agilità nel camminare dopo un’ora e trentotto di nuoto è minore di quella di una foca zoppa. Ci vogliono ben tre volontari per far recuperare terra al naufrago. Barcollo per la salita, la muta non esce, cade anche l’orologio. Tutte ora mannaggia la putt…
Corricchio verso la bici, lontanissima perché la zona cambio è molto estesa. Rinvengo dalla trance agonistica con l’urlo di incitamento di Antonella. E’ lì, a pochi centimetri da me, ma separati dalla recinzione, trovo il tempo anche per un bacetto. Ma dopo i romanticismi mi ricordo del Garmin della bici che, nella concitazione della partenza, lo avevo lasciato nel suo zaino, allungo la mano e riesco a recuperarlo. Meno male, ora posso montarlo sulla Pina che mi aspetta in zona cambio.
Le bici, come di consuetudine, sono rimaste pochine. Non mi perdo d’animo, non è il momento di perdersi d’animo, La Promenade des Anglais è tutta per me e nemmeno il tempo di far asciugare il body che inizia subito la salita. Il mio terreno di battaglia ? Pensavo. Invece …..
Le gambe infatti non mi sembrano girare a modo. Anche il Garmin ed il power meter che giustamente non si fanno gli affaracci suoi, mi confermano che qualcosa non va. Butto giù i primi due gel con la speranza che un po’ di benzina nel carburatore possa far sortire un qualche effetto. Forse si, o magari è solo una suggestione,
E’ così che siamo al primo ristoro, le facce sorridenti dei volontari mi mettono buon umore. La scelta del ristoro è ampia come c’è da aspettarsi in un gara di questo livello, ma io banalizzo e mi riempio la borraccia solo di normalissima acqua.
Riparto bello pimpante, la strada ora è un falsopiano che ci porta a Vence, paesino dall’aria provenzale con tantissima gente che fa il tifo per i triatleti. Un ottimo fondo stradale che in Italia purtroppo ce lo sogniamo, ci porta ad una bella discesa nel tratto boscoso. E’ assolutamente il momento di mollare i freni della Pina. Le curve ben disegnate e l’asfalto di qualità ottima fanno prendere velocità da brivido. In discesa ne sorpasso molti meno cretini di me. Ed è infatti che dopo pochi minuti scorgo il cartello che avvisa della salita, la salita VERA che ci porterà al Col d’Ecre.
Approfitto per una sosta ai box dove il box è fatto da un cespuglio ben infrattato che mi permette di alleggerire la zavorra. E’ inutile avere la bici in carbonio superleggera se devi fare ancora la pipì prima della salita (!)
La strada diventa veramente suggestiva. Il canyon, la galleria, la cascata, il bosco che comincia a virare nei colori più vari del verde e del marrone. Un bel posto, superlativo. Mi “sveglio” dalle distrazioni del turista in vacanza quando due tipi non proprio asciutti nel fisico mi passano agili in salita. Eh no ! Diamoci una mossa, essere sverniciato da questi due mi distrugge per un attimo l’autostima. Tolgo un paio di denti al rapporto posteriore, mi alzo sui pedali e cerco di rimettere ordine alle cose.
Sento di stare bene, le gambe girano, i watts escono fuori, il Garmin lo conferma.
Sono prossimo al secondo ristoro e persuaso dal fatto che la temperatura da gradevole sta diventando calda, mi prendo un Gatorade, ne tragugio un po’, è dolcetto, il sapore non è malaccio ed al momento va giù bene. Errore madornale ! Col senno di poi credo di aver fatto una enorme leggerezza, perché una volta scaldato a temperature da brodino della commenda, mi innesca un mal di stomaco micidiale che sarà poi causa della nausea successiva. Ma di questo ne parliamo dopo.
Con l’arrivo a Gourdon significa essere già su con l’altitudine. La mappa del percorso indica che la salita passerà da uno scorrevole 8% a pendenze almeno doppie. Faccio alcuni chilometri, però di salita ignorante non se ne vede l’ombra, anzi per dirla tutta, l’ombra è proprio sparita perché il bosco fresco lascia il posto ad un costone calcareo dove il sole picchia sul serio. E puntuale arriva anche la salita che era stata promessa. Dopo un tornante secco occorre metter su l’ultimo pignone disponibile, il 32 che prudentemente avevo deciso di sostituire alla bici proprio gli ultimi giorni. Mi salverà la gamba per quello che può, anche se la velocità ora è molto rallentata.
La salita sta diventando tosta, complice anche il caldo dovuto al sole che riflette sulle rocce bianche. Il gruppetto ora è formato da diversi ciclisti, con la bassa velocità provo a fare qualche battuta nel mio francese scolastico con i compagni di tribolazione. Tentativo andato parzialmente a vuoto perché tra sbuffi e qualche imprecazione in lingua straniera, nessuno ha voglia di fare pubbliche relazioni. Ricordo a me stesso che siamo all’Ironman e non in spiaggia a prendere la tintarella; mi zittisco anche io. Anche perché la salita non passa, la velocità media si abbassa drasticamente, si va tutti su molto piano, prevale un po’ lo sconforto.
Ma in mezzo a questo girone dantesco, ecco il miraggio: dietro un tornante si materializzano le forme di un fisico femminile da urlo, una bellissima treccia bionda e, soprattutto, un “sottosella” da campionato del mondo. La svizzerotta, anche lei come noi un po’ sopraffatta dalla fatica, mi permette di affiancarla, facendomi ovviamente sprecare energie preziose, gli occhiali scurissimi del casco crono mi permettono di ammirarla meglio e con un minimo di discrezione. Lineamenti perfetti e occhi azzurrissimi puntano dritti ben oltre la sua ruota e sembra non perdersi in nessuna distrazione. Detto fra noi è veramente una gran gnocca* . Wow. Da bravo cavaliere saluto e non proferisco altra parola. C’è soprattutto da pensare ai pedali, ora più che mai. (*perdonatemi la considerazione politicamente scorretta…)
Un po’ ricaricato nell’animo, si fa per dire, dalla inaspettata “visione”, ma soprattutto dalla diminuzione della pendenza, giungo finalmente alla cima del Col d’Ecre. Il più è fatto ? No, nemmeno per idea perché il computerino della bici mi dice che c’è da fare altrettanta salita.
Comincia un gioco di saliscendi deleteri alla muscolatura. Scendi cinque chilometri e ne sali dieci. I tratti in discesa sono peraltro un po’ ventosi e le alte velocità sembrano scuotere la Pina pericolosamente. E’ caso di non fare azzardi, la strada non la conosco e più di una volta mi capita di pinzare i dischi per evitare il peggio.
Andare non troppo forte in discesa non mi da modo di recuperare la media oraria che era stata drasticamente ridotta in salita. In gara non è questo il modo di fare le cose ma una caduta non va assolutamente messa in conto.
Si arriva ad Andon, il paesino dove praticamente tutti erano diventati volontari dell’evento. Con rapidità ed efficienza mi consegnano la sacca con i micro-panini, il cibo salato da alternare ai gel che ormai mi avevano stufato. Siamo all’ora di pranzo, teoricamente il mio orologio biologico dovrebbe dirmi di mangiare ma la nausea invece sta avendo il sopravvento.
La colpa è sicuramente del brodino-gatorade che mi ha scombussolato tutto. Provo a mangiare un paninetto e poi un altro che però non va né su, né giù. Non va bene, così non va assolutamente bene. Se non si mangia, non si va, non si può spingere il motore senza carburante. Cerco di proseguire sperando in un miglioramento. Bevo tanta acqua, mi carico due borracce piene sperando che in capo ad un’oretta le cose possano migliorare.
C’è ancora salita, non troppo ripida ma comunque ancora dislivello da fare. Il bellissimo paesaggio del verdissimo altopiano dopo Andon non si fa apprezzare perché rimugino in testa una soluzione al problema.
Arrivo al chilometro 100, un punto chiave dove inizia la prima ripida e spettacolare discesa che ci porterà a Gréolières. La strada è talvolta larga e talvolta stretta ed il guard-rail, composto da un insufficiente muretto di pochi centimetri non mi da la confidenza di sparamela giù a tutta. I tornanti sono spesso curve chiuse e la probabilità di prendersi in faccia una Renault o una Citroen può non essere remota.
A Gréolières siamo incitati dal tifo dei paesani. Il percorso attraversa infatti le viuzze strette del villaggio di mezza montagna. Credo che per una comunità di poche centinaia di persone un evento del genere possa rappresentare una gran cosa perchè in effetti si ha la sensazione che tutti ne siano molto coinvolti.
Finiti i “bravò” ed i “courage” dei paesani, siamo alle prese con l’ultima salita. Cerco ancora di socializzare con gli altri ed impasto un discorso in francese + badengo* con un ciclista còrso, lui mi dice di Ascò, un paesino gioiello dell’interno della Corsica che conosco bene (* il dialetto corso è simile alla parlata badenga / amiatina). Passiamo un po’ di tempo affiancati, mi dice che verrà in Italia a fare la maratona di Firenze, la fa tutti gli anni ed anche quest’anno non vorrà mancare. Anch’io sono già iscritto e penso tra me che dopotutto, quelli che fanno questo tipo di gare, sono tutti uguali tra di loro. Fatti con lo stampino si dice al mio paese.
La cima dell’ultima salita è raggiunta e coincide quasi con uno degli ultimi ristori. Gioco la carta della frutta verso la quale i pochi neuroni delegati alla gestione dell’appetito mi dicono ok, prova pure. Si fa merenda con due banane un po’ acerbe ma come piacciono a me.
La strada scende ancora ma non si possono mollare i freni del tutto perché spesso si entra nei paesini, si cominciano a rivedere le rotonde e qualche auto di troppo. La media migliora ma ahimè, non troppo.
Mi ingarello con un paio di ciclisti un po’ più timidi nei tornanti ma mi accorgo poi che nei tratti meno pendenti o pianeggianti mi tornano quasi subito alle spalle. E’ segno inconfutabile che la benzina sta per finire e la forza di pigiare sui pedali ne è rimasta ben poca.
Allarme rosso ? No, speriamo di no. Siamo di nuovo nella valle del Var, si ripercorrono al contrario le strade di stamani. La strada è ora pianeggiante e permette il formarsi nuovamente di gruppetti di ciclisti. Pedaliamo affiancati verso la strada prossima all’aeroporto quando, sorpresa degli ultimi minuti, sopraggiunge anche la super-gnocca incontrata al Col d’Ecre. Anche lei, nonostante il fisico statuario e la data di nascita molto successiva alla mia, non mi pare abbia ancora energie da buttare, decide infatti di rimanere nel gruppetto dei quattro / cinque tapascioni ai quali mi sono aggregato.
Siamo a Nizza, la bike è archiviata, il Garmin segna 171 chilometri, 7 ore e 49 minuti. Non sono per niente contento, la media è schifosamente bassa. Mi ero fatto un altro film, ahimè.
Ma non è proprio questo il momento dei bilanci. C’è ancora da trovare il posto alla bici, da cambiarsi le scarpe, da rimettere a posto le idee.
Ho appena finito una pedalata di quasi otto ore, non ho mangiato un cazzo, ho il “torcibudello” e devo iniziare una maratona. Se non fosse tremendamente reale, potrebbe essere l’inizio di un incubo.
Esco dalla zona cambio attraversando un varco tra la recinzione ed ho come la sensazione di buttarmi nella gabbia dei leoni. Si para davanti a me un rettilineo lunghissimo circondato da spettatori vocianti, musica a palla, un’arena, mancano solo le bestie feroci !
La mia mente è pervasa da mille dubbi. Sto facendo una cosa mai fatta prima in vita mia. Camminare, corricchiare, smettere. Boh.
Lascio decidere l’istinto pur tenendo bene a mente le parole di Franco (ndr Ceccanibbi, il nostro presidente): inizia piano anche se ti senti bene. E’ così che faccio e taro il mio immaginario cruise-control a 7 minuti a chilometro. E’ poco ? No, forse è giusto. Il mio obiettivo è FINIRE ed al momento non sono nemmeno le 18, c’è tempo per fare le cose con calma.
La gente di Nizza è fantastica, dicono che circa settantamila persone seguano l’Ironman ogni anno, il tifo è coinvolgente ed è per tutti, dai campioni fino agli scarsi come me.
Courage, bravò, ognuno ha una parola per te. Cerco di ringraziare tutti: un merci, un cenno con la mano, un sorriso a denti stretti. Dopo tutto sono lì per noi, a darti supporto, a comprendere ciò che stai facendo, a spingerti metaforicamente in questo viaggio più mentale che fisico.
Riprendo a mettere in pancia qualcosa, spicchi di arancio, coca cola, acqua “fresca”, un gellino superstite nel marsupio, sembra essere un mix sufficiente a farmi tornare alla normalità. I primi quindici chilometri tutto sommato se ne vanno meglio del previsto. Il passo rimane costante, si va avanti ancora con una postura decente.
Incontro Barbara che mi urla che è all’ultimo giro e penso tra me che sta scherzando, è ancora troppo presto per finire. Oppure è andata come un fulmine. (al traguardo avrò la conferma di questa seconda ipotesi). Dopo di lei, alla spicciolata, gli altri della VIS, tutti con un buon passo.
E’ dopo il ventesimo chilometro che succede qualcosa di strano. Sopraggiunge una specie di torpore, leggeri brividi mi pervadono le braccia. Guardo il Garmin: 100 battiti al minuto ! Il cuore non spinge più, non ha più glicogeno da trasformare. La corsetta leggera che avevo impostato è diventata un incedere tutt’altro che degno di uno sportivo. Cosa mi invento ora ? Mi viene in mente un altro consiglio di Franco: la Red Bull ! Aspetto il prossimo ristoro e provo. Una bella sorsata con un po’ d’acqua e via. E’ vero, ti mette le ali come racconta la nota pubblicità. Si riparte, non a ritmi ideali, ma i battiti ora sono a 120 che mi consentono di tornare alla velocità di “crociera” che mi ero prefissato. E’ però un palliativo e l’effetto “sprint” già dopo il trentesimo chilometro svanisce.
Manca un giro, un solo giro, un’ora abbondante di questa giostra estenuante.
Mi passa nella mente tutto il tempo durante il quale mi sono allenato, le uscite nelle giornate che avevi voglia di spiaggiarti sul divano, ma dovevi andare, i soldi spesi (tanti !), il tempo tolto alla famiglia. Ora c’è solo un’opzione disponibile: vai avanti e zitto.
Un Ironman è un progetto di mesi, anni e soprattutto alla mia età è un jolly che devi giocare al tempo presente e non puoi rimandare al futuro, un anno che passa è molto, una strada sempre più in salita ed anche solo mantenere le stesse performance sportive, richiede un allenamento sempre più minuzioso ed intenso rispetto agli anni precedenti.
Non posso cedere ora anche se le gambe dicono al cervello che non è il caso di andare avanti. Non posso tradire me stesso. Vietato arrendersi ora più che mai. La Promenade des Anglais si sta svuotando ed i tifosi più accaniti se ne sono tornati a casa, anche i ristori stanno smontando la baracca. Guardo compulsivamente l’orologio: non è tardi, ce la dovrei fare. Ma ancora qualche paturnia mi pervade i pensieri: un crampo, un problema di stomaco.
Ora la musica e gli speaker si fanno sempre più nitidi, non manca molto. Accelero, accelero, più che posso. Affanculo il glicogeno, i crampi, lo stomaco, il male ad ogni muscolo grande o piccolo che sia.
E’ fatta, ormai sono anestetizzato dalla condizione fisica fuori dall’immaginabile, imbocco il tanto agognato stradello a destra.
Sono nel corridoio finale. Finora ho scritto tanto, ma credetemi, mi mancano le parole per descrivere ciò che ho provato in quegli attimi finali. Ci sono applausi anche per me che tutto sommato sono arrivato ore dopo quelli bravi e forti.
You are an Ironman, Roberto, grida lo speaker. Sì, è vero ora lo sei anche tu, proprio come quelli bravi e forti.
Oltre la recinzione scorgo Antonella, gli occhi si inumidiscono ad entrambi, le balbetto un: ce l’ho fatta, hai visto che ce l’ho fatta. Resto poi muto per molti secondi, chissà forse un minuto.
Mi sono appena regalato quella cosa che per uno sportivo è forse il culmine dell’impegno, una cosa che rimarrà per sempre nei tuoi pensieri di una vita.
Sono un Ironman.